Prof. Angelo Calabrese
Storico e critico letterario e dell’arte. Presidente della Giuria |
Lei non era bellissima, ma era come l’arte.
E l’arte non deve essere bellissima, deve farti provare qualcosa. I responsabili della Biennale d’Arte di Salerno hanno soffermato la loro attenzione su questa considerazione anonima che ha un suo intrinseco valore: l’hanno tenuta presente mentre architettavano le attività che dovevano vivacizzare e articolare i momenti espositivi che, dal 15 ottobre sarebbero stati proposti fino al 20 novembre, giornata mondiale dei diritti dell’infanzia. La gente della Biennale ha avuto, quindi, le sue giuste sedi le attenzioni istitutive delle Competenze che hanno contribuito ad arricchire e dare lustro, con il loro partenariato, all’impegno di un progetto di forte positività. La biennale, alla seconda edizione, denuncia e verifica, ma soprattutto si interroga o meglio rinnova gli interrogativi che assillano l’arte che va facendosi. Quella che fa, e che farà, poco interessa alle ragioni di chi intende la conoscenza, sempre evoluta nello scenario dell’unico orizzonte passato-presente-futuro e quindi, considera la necessità evolutiva in un eterno presente che vive asprezze ed inclemenze più che percorsi agevoli, produttivi e rasserenanti. Scelte di comodo propongono l’arte come divertimento, trasgressione e anticipazione. Molti privilegiano gioco e light eversivo: |
l’instante, anche avvertendo il senso drammatico dell’umanità in cammino, dal quale preferiscono distrarsi, addirittura smemorandosi. Persiste il dilemma se l’arte sia conquista immediata, d’età acerbe o frutto di fatiche che procedono dall’età della ragione. Si è già osservato che le dittature avevano il culto della giovinezza, tutte quante, perché portatrice di entusiasmi e pronta ad esaltarsi per liberarsi dal passato. Quella l’età in cui si avverte la necessità di rivoluzionare il senso della vita al culmine di cicli storici decapitati, strozzati, messi in catene e finalmente avviati a combattere, sempre in nome degli entusiasmi asserviti alla retorica.
La gioventù ama bruciare le tappe e considerare viziate le esperienze lungamente meditate. Dal momento che la scienza risolve in progress problemi di luci, spazi, proporzioni e libera gli artisti dalle preoccupazioni “tecniche”, i beati dell’arte e i condannati all’arte, o aderiscono totalmente alla tecnologia avanzata, oppure, riconoscendo che la società continua a degradare verso i limiti più bassi, ritrovano frammenti di fatiscenze che comunque, riportano alla storia e alla memoria, e quindi rivalutano il dato umano. Altrove, i ripensamenti e le tautologie alimentano proposte che, invece di essere artistiche, sono noiose e insopportabili. Queste problematiche a tutti note, ma poi bisogna riflettere anche sull’arte comunicata e sul mercato che la sostiene, in una successione di eventi che transitano dal prodotto all’esposizione, ai collezionisti fino alle accoglienze museali, dove trovano finalmente sede permanente, per la celebrazione e la riflessione. Non vogliamo però sottrarci al compito di considerare l’arte vitalmente al servizio della comunità, con funzione didattica e come contributo a risolvere i conflitti emotivi, specie quando si distinguono gli artisti tra venerabili e disprezzabili.
Un’osservazione non peregrina dovrebbe farci indirizzare verso le proposte d’arte che sollecitano stati di agitazione con la loro aggressività e angoscia, con quell’amarezza che deriva dalla comunicazione intellettuale, tutta cervello, così dura, da produrre dubbio e smarrimento. La denuncia può non essere piacevole, ma stimolare addirittura all’orrore. Quella invece che noi chiamiamo bellezza e insistiamo a definire armonia, verso la quale deve necessariamente verificarsi il transito di ciò che ci fa guerra, bellum, da cui deriva il termine bellezza, fa parte di quel sublime di cui parla Kant. Il filosofo, nella critica del giudizio afferma che: “non risiede in nessuna cosa della natura, ma soltanto nell’animo nostro, quando possiamo accorgerci d’essere superiori alla natura che è in noi, e perciò anche alla natura che è fuori di noi”. Il sublime nell’interiorità dell’uomo, ci fa ripensare l’agostiniano: “noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore hominis est veritas”.
Il nostro tempo è tanto lontano dal coraggio dei grandi del passato, che si affrontavano allo specchio per cercarsi e tremavano di fronte ai misteri della natura che pensa anche nel più fragile dei fili d’erba. Da noi non si prendono in considerazione le forze misteriose che sono presenti nella realtà. Janus, nel 1993, faceva notare che gli artisti si interessavano al reale in modi frivoli ed esteriori “senza più combattimento, senza più fede, in maniera quasi cinica. Si mettevano davanti al reale, ma non avevano più paura del suo mistero… Non è sufficiente dipingere un tramonto per darci l’idea di un tramonto o una mela o un fiore per convincerci che siamo davanti a una mela o ad un fiore… Spesse volte riusciamo invece a scorgere un fiore o un fiume nell’interno di un quadro astratto o informale… Vi è più “reale” in un quadro di Kandinskj o di Mondrian che in tanti epigoni del reale”. E poi sussiste quell’infantilismo di cui è meglio tacere. Siamo stati sempre convinti che l’arte abbia avuto un solo stile, irradiato in tante materializzazioni dell’energia creativa, diversificate in altrettanti stili, tutti dotati di differentissime completezze, a testimonianza del tempo in cui la produzione si è immedesimata nelle dimensioni culturali, scientifiche, ed etiche del momento che hanno rappresentato.
La Biennale di Salerno 2016 accoglie artisti per invito e libera adesione e lascia a tutti loro la libera scelta della tematica di proprio gradimento o quella di affrontare il dramma dell’infanzia tradita, proprio nel tempo in cui i diritti di quell’età sono stati sanciti a livello internazionale. Va detto subito che il progetto espositivo è finalizzato alla valorizzazione dell’umanità in cammino, senza tradirne la storia. Le proposte estetiche mirano, infatti, ad una perenne cancellazione di confini, proponendo cultura e ricchezza d’invenzione. Altrove abbiamo già affermato che le arti, nessuna esclusa, dato che operano sinergeticamente e sinesteticamente, sono necessarie alla vita storica dell’umanità. La scelta, profondamente avvertita, delle tematiche da affrontare deve pertanto ricadere su argomenti problematici prioritari, le cui soluzioni non possono attendere che il tempo si faccia scenario di nuovi e più intrigati problemi. Se ne deduce che il fare progettuale deve cogliere i segni dei tempi nelle opportunità di proporre cambiamenti. L’arte che sa antivedere, mette a frutto gli strumenti del sapere conoscitivo, per esserci e appartenere alla storia dell’edificazione umana. Solo così gli artisti possono creare eventi reali, nella consapevolezza delle preesistenze storiche e della necessità di essere pronti a cogliere i nuovi miti insorgenti. Molte delle opere presenti in mostra si distinguono per acume d’ingegno e per l’esigenza di proiettarsi verso nuovi destini dell’umanità a venire. Le cose vivono soltanto se le facciamo mutare, riscattandole con umanissime ragioni dal loro ineludibile materiale-destino-metamorfico. Le arti visive rendono visibile il sogno e topica l’utopia: la creatività è il luogo ottimale di confluenza tra la realtà e l’immaginazione. Abbiamo apprezzato quelle opere in cui progetto e topia si incontrano, verificando, proprio nella confluenza tra la realtà e l’immaginazione, il campo aperto per la battaglia della verità. I visitatori della Biennale apprezzeranno stili ed idee a confronto, mutamenti di umore, incidenti di percorso, scelte eroiche, decisioni di sperimentare e produrre la trasfigurazione delle cose. Non è il caso di dilungarci sulle verificabili conseguenze degli accadimenti fermentati nel nostro tempo dell’incertezza, ma è interessante notare che, quasi tutte le opere presenti nelle varie sedi destinate all’esposizione prevista per la Biennale, prendono atto degli incidenti di percorso nei quali solo delle scelte coraggiose potrebbero produrre la trasfigurazione delle cose. Molti segnali alludono a fatti contingenti; altri anelano a progettare nel non ancora, nel divenire, per non perdere l’umana consistenza nell’ineludibile tempo della continuità. Abbiamo apprezzato quelle opere nelle quali l’arte si coniuga alla coerenza etica e si fa pensosa del mistero. Gli artisti che si sono rivelati devoti dell’uomo sono stati anche coerenti nel dimostrare che, se la metamorfosi è ineludibile, è proprio lui il signore dei mutamenti accelerati. Progetto e topia possono incontrarsi nel concretamente visibile. Il tempo necessario garantirà la strada percorribile per giungere, al momento opportuno, dove l’uomo è felicemente destino dell’uomo.
Altri artisti, in realtà pochi, hanno sondato l’intangibile nei labirinti di Psiche, coniugando sapienza, scienza e coscienza: il progetto di umanità, nella loro visione, si conferma perennemente senza conclusioni, ma intanto necessariamente etico nei percorsi. L’aria che si respira nell’ambito della Biennale, rivela la consapevolezza che la complessità e l’impredicibilità sono proprietà epistemologiche del macrocosmo e del microcosmo e non permettono di conoscere i comportamenti futuri dei complessi caotici e quantistici. Non mancano accenni alla tradizione, superando però il concetto di trasmissione di valori passivamente accettati. La tradizione è aria che si respira e consente di ricercare nuovi contenuti da innestare nelle antiche forme, che devono configurarsi come preesistenze nei processi evolutivi e metamorfici. La critica, quella non monopolizzata e svilita dall’ideologia, quindi non persuasa a perseguire altri concretamente motivati vantaggi, certamente troverà, nelle opere presenti in mostra, la voglia di incontrarsi tra uomini umani per una comune e sincera crescita. La proposta globale è quella di un nuovo modo d’esserci nel tempo. La modernità dell’evento è siglata dalla stessa serietà del progetto culturale finalizzato a quelle norme istitutive, rispettate nella prima edizione. La Biennale non va confusa con attività poco ortodosse, nelle quali il millantato credito e lo sfruttamento degli allocchi, portano acqua a un mulino in cui la grana, non il grano, non diventerà mai farina per il pane di tutti.
Un accenno va dato alla nuova modalità di proporre gli artisti in “quarantena” in Villa Wenner. Lavoreranno singolarmente e nella realizzazione di un’opera collettiva, inventandosi una rinfusa di materiali vari su tela per una interessante installazione.
Per quanto concerne il nostro tempo cibernetico, robotico e metamorfico, non mancheranno le allusioni ai recenti metodi comportamentali, alle abitudini e all’uso salutare di nuovi prodotti nutrizionali. I cinque artisti in quarantena, di sera, si trasformeranno in cuochi, proponendo un menù realizzato con i prodotti biologici de: “La dolce vita” di Milano. Il cibo vero, quello che nutrirà di sapienza e conoscenza, sarà comunque quello offerto da tutti i partecipanti alla Biennale, che, con le loro opere, non solo testimonieranno la loro vocazione a confrontarsi a livello internazionale, ma anche a contribuire e decifrare visivamente le problematiche che vengono affrontate e ad evidenziare i valori che la Biennale intende esaltare.
Angelo Calabrese
La gioventù ama bruciare le tappe e considerare viziate le esperienze lungamente meditate. Dal momento che la scienza risolve in progress problemi di luci, spazi, proporzioni e libera gli artisti dalle preoccupazioni “tecniche”, i beati dell’arte e i condannati all’arte, o aderiscono totalmente alla tecnologia avanzata, oppure, riconoscendo che la società continua a degradare verso i limiti più bassi, ritrovano frammenti di fatiscenze che comunque, riportano alla storia e alla memoria, e quindi rivalutano il dato umano. Altrove, i ripensamenti e le tautologie alimentano proposte che, invece di essere artistiche, sono noiose e insopportabili. Queste problematiche a tutti note, ma poi bisogna riflettere anche sull’arte comunicata e sul mercato che la sostiene, in una successione di eventi che transitano dal prodotto all’esposizione, ai collezionisti fino alle accoglienze museali, dove trovano finalmente sede permanente, per la celebrazione e la riflessione. Non vogliamo però sottrarci al compito di considerare l’arte vitalmente al servizio della comunità, con funzione didattica e come contributo a risolvere i conflitti emotivi, specie quando si distinguono gli artisti tra venerabili e disprezzabili.
Un’osservazione non peregrina dovrebbe farci indirizzare verso le proposte d’arte che sollecitano stati di agitazione con la loro aggressività e angoscia, con quell’amarezza che deriva dalla comunicazione intellettuale, tutta cervello, così dura, da produrre dubbio e smarrimento. La denuncia può non essere piacevole, ma stimolare addirittura all’orrore. Quella invece che noi chiamiamo bellezza e insistiamo a definire armonia, verso la quale deve necessariamente verificarsi il transito di ciò che ci fa guerra, bellum, da cui deriva il termine bellezza, fa parte di quel sublime di cui parla Kant. Il filosofo, nella critica del giudizio afferma che: “non risiede in nessuna cosa della natura, ma soltanto nell’animo nostro, quando possiamo accorgerci d’essere superiori alla natura che è in noi, e perciò anche alla natura che è fuori di noi”. Il sublime nell’interiorità dell’uomo, ci fa ripensare l’agostiniano: “noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore hominis est veritas”.
Il nostro tempo è tanto lontano dal coraggio dei grandi del passato, che si affrontavano allo specchio per cercarsi e tremavano di fronte ai misteri della natura che pensa anche nel più fragile dei fili d’erba. Da noi non si prendono in considerazione le forze misteriose che sono presenti nella realtà. Janus, nel 1993, faceva notare che gli artisti si interessavano al reale in modi frivoli ed esteriori “senza più combattimento, senza più fede, in maniera quasi cinica. Si mettevano davanti al reale, ma non avevano più paura del suo mistero… Non è sufficiente dipingere un tramonto per darci l’idea di un tramonto o una mela o un fiore per convincerci che siamo davanti a una mela o ad un fiore… Spesse volte riusciamo invece a scorgere un fiore o un fiume nell’interno di un quadro astratto o informale… Vi è più “reale” in un quadro di Kandinskj o di Mondrian che in tanti epigoni del reale”. E poi sussiste quell’infantilismo di cui è meglio tacere. Siamo stati sempre convinti che l’arte abbia avuto un solo stile, irradiato in tante materializzazioni dell’energia creativa, diversificate in altrettanti stili, tutti dotati di differentissime completezze, a testimonianza del tempo in cui la produzione si è immedesimata nelle dimensioni culturali, scientifiche, ed etiche del momento che hanno rappresentato.
La Biennale di Salerno 2016 accoglie artisti per invito e libera adesione e lascia a tutti loro la libera scelta della tematica di proprio gradimento o quella di affrontare il dramma dell’infanzia tradita, proprio nel tempo in cui i diritti di quell’età sono stati sanciti a livello internazionale. Va detto subito che il progetto espositivo è finalizzato alla valorizzazione dell’umanità in cammino, senza tradirne la storia. Le proposte estetiche mirano, infatti, ad una perenne cancellazione di confini, proponendo cultura e ricchezza d’invenzione. Altrove abbiamo già affermato che le arti, nessuna esclusa, dato che operano sinergeticamente e sinesteticamente, sono necessarie alla vita storica dell’umanità. La scelta, profondamente avvertita, delle tematiche da affrontare deve pertanto ricadere su argomenti problematici prioritari, le cui soluzioni non possono attendere che il tempo si faccia scenario di nuovi e più intrigati problemi. Se ne deduce che il fare progettuale deve cogliere i segni dei tempi nelle opportunità di proporre cambiamenti. L’arte che sa antivedere, mette a frutto gli strumenti del sapere conoscitivo, per esserci e appartenere alla storia dell’edificazione umana. Solo così gli artisti possono creare eventi reali, nella consapevolezza delle preesistenze storiche e della necessità di essere pronti a cogliere i nuovi miti insorgenti. Molte delle opere presenti in mostra si distinguono per acume d’ingegno e per l’esigenza di proiettarsi verso nuovi destini dell’umanità a venire. Le cose vivono soltanto se le facciamo mutare, riscattandole con umanissime ragioni dal loro ineludibile materiale-destino-metamorfico. Le arti visive rendono visibile il sogno e topica l’utopia: la creatività è il luogo ottimale di confluenza tra la realtà e l’immaginazione. Abbiamo apprezzato quelle opere in cui progetto e topia si incontrano, verificando, proprio nella confluenza tra la realtà e l’immaginazione, il campo aperto per la battaglia della verità. I visitatori della Biennale apprezzeranno stili ed idee a confronto, mutamenti di umore, incidenti di percorso, scelte eroiche, decisioni di sperimentare e produrre la trasfigurazione delle cose. Non è il caso di dilungarci sulle verificabili conseguenze degli accadimenti fermentati nel nostro tempo dell’incertezza, ma è interessante notare che, quasi tutte le opere presenti nelle varie sedi destinate all’esposizione prevista per la Biennale, prendono atto degli incidenti di percorso nei quali solo delle scelte coraggiose potrebbero produrre la trasfigurazione delle cose. Molti segnali alludono a fatti contingenti; altri anelano a progettare nel non ancora, nel divenire, per non perdere l’umana consistenza nell’ineludibile tempo della continuità. Abbiamo apprezzato quelle opere nelle quali l’arte si coniuga alla coerenza etica e si fa pensosa del mistero. Gli artisti che si sono rivelati devoti dell’uomo sono stati anche coerenti nel dimostrare che, se la metamorfosi è ineludibile, è proprio lui il signore dei mutamenti accelerati. Progetto e topia possono incontrarsi nel concretamente visibile. Il tempo necessario garantirà la strada percorribile per giungere, al momento opportuno, dove l’uomo è felicemente destino dell’uomo.
Altri artisti, in realtà pochi, hanno sondato l’intangibile nei labirinti di Psiche, coniugando sapienza, scienza e coscienza: il progetto di umanità, nella loro visione, si conferma perennemente senza conclusioni, ma intanto necessariamente etico nei percorsi. L’aria che si respira nell’ambito della Biennale, rivela la consapevolezza che la complessità e l’impredicibilità sono proprietà epistemologiche del macrocosmo e del microcosmo e non permettono di conoscere i comportamenti futuri dei complessi caotici e quantistici. Non mancano accenni alla tradizione, superando però il concetto di trasmissione di valori passivamente accettati. La tradizione è aria che si respira e consente di ricercare nuovi contenuti da innestare nelle antiche forme, che devono configurarsi come preesistenze nei processi evolutivi e metamorfici. La critica, quella non monopolizzata e svilita dall’ideologia, quindi non persuasa a perseguire altri concretamente motivati vantaggi, certamente troverà, nelle opere presenti in mostra, la voglia di incontrarsi tra uomini umani per una comune e sincera crescita. La proposta globale è quella di un nuovo modo d’esserci nel tempo. La modernità dell’evento è siglata dalla stessa serietà del progetto culturale finalizzato a quelle norme istitutive, rispettate nella prima edizione. La Biennale non va confusa con attività poco ortodosse, nelle quali il millantato credito e lo sfruttamento degli allocchi, portano acqua a un mulino in cui la grana, non il grano, non diventerà mai farina per il pane di tutti.
Un accenno va dato alla nuova modalità di proporre gli artisti in “quarantena” in Villa Wenner. Lavoreranno singolarmente e nella realizzazione di un’opera collettiva, inventandosi una rinfusa di materiali vari su tela per una interessante installazione.
Per quanto concerne il nostro tempo cibernetico, robotico e metamorfico, non mancheranno le allusioni ai recenti metodi comportamentali, alle abitudini e all’uso salutare di nuovi prodotti nutrizionali. I cinque artisti in quarantena, di sera, si trasformeranno in cuochi, proponendo un menù realizzato con i prodotti biologici de: “La dolce vita” di Milano. Il cibo vero, quello che nutrirà di sapienza e conoscenza, sarà comunque quello offerto da tutti i partecipanti alla Biennale, che, con le loro opere, non solo testimonieranno la loro vocazione a confrontarsi a livello internazionale, ma anche a contribuire e decifrare visivamente le problematiche che vengono affrontate e ad evidenziare i valori che la Biennale intende esaltare.
Angelo Calabrese